A cura di: dott.ssa Claudia Ercolini
Il reato di peculato è descritto dall’art. 314 c.p. che al primo comma recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.”
Occorre preliminarmente valutare la natura di tale reato e i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice: si tratta di un reato contro la pubblica amministrazione, per cui in primo luogo la norma è diretta a tutelare il buon andamento e l’imparzialità della P.A., in particolare sotto il profilo del regolare funzionamento e del prestigio della stessa. Tuttavia, secondo l’orientamento più recente, il reato di peculato risulta posto a presidio di un ulteriore bene: quello dell’integrità patrimoniale della amministrazione, purchè le cose oggetto di peculato abbiano un valore economico rilevante e rilevabile.
Ci troveremmo dinanzi, quindi, ad un reato plurioffensivo eventuale per la cui configurabilità è sufficiente accertare la lesione di uno dei due beni giuridici protetti, come affermato anche dalle Sezioni Unite nel 2013 al fine di garantire una adeguata area di operatività alla fattispecie. Trattasi, inoltre, di un reato proprio comune, la cui fattispecie base penalmente rilevante è senza dubbio quella dell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p., a cui si aggiunge la qualifica soggettiva peculiare di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio che determina la modifica del titolo in peculato.
Per entrare nel vivo del discorso, occorre soffermarci sulla struttura della fattispecie criminosa: questa si caratterizza per la sussistenza di due elementi costitutivi fondamentali: la condotta di espropriazione del bene dal legittimo proprietario e la condotta di impropriazione di quel medesimo bene con l’instaurazione di una nuova signoria sul fatto. Fondamentale è dunque, il possesso o la disponibilità del denaro o di altra cosa mobile altrui da parte del soggetto attivo del reato. Per possesso occorre rifarsi ad una nozione allargata che ricomprenda, dunque, sia la disponibilità materiale che quella propriamente giuridica.
Tale possesso è fondamentale che risulti anteriore alla commissione del reato, in effetti, il peculato si configura allorché intervenga la cd. interversio possessionis: il pubblico ufficiale che ha nella sua disponibilità quella res di proprietà della pubblica amministrazione, finisce per comportarsi nell’utilizzo della stessa uti dominus, ovvero come se ne fosse il proprietario, disponendo ad libitum di quella res ben al di là di quelle che sono le corrispondenti destinazioni funzionali. Proprio questo peculiare elemento permette di distinguere il peculato dalla truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9 c.p. che fa riferimento al reato commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione ovvero ad un pubblico servizio. Ad avviso della Cassazione, infatti, l’elemento discretivo va individuato nelle modalità di possesso del denaro o della cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione. Nel caso dell’art. 314 c.p. il pubblico ufficiale è già in possesso della res per ragioni di ufficio o servizio, nella truffa, invece, il soggetto attivo non avendo questo possesso, se lo procura fraudolentemente, tramite artifizi o raggiri.
L’ulteriore elemento fondamentale che emerge dalla lettura del primo comma è quello della relazione funzionale tra il possesso e l’esercizio della pubblica funzione che, ad avviso della Corte, non deve avere un carattere di mera occasionalità.
Tuttavia, nel procedere con l’ analisi della norma, occorre ricordare che tale formulazione attuale risulta così delineatasi a seguito della riforma del 1990. Antecedentemente a tale intervento legislativo, ci si trovava di fronte una fattispecie che puniva a titolo di peculato, con la stessa cornice edittale, due condotte differenti: l’appropriazione e la distrazione.
Il legislatore del 1990 circoscrive la fattispecie alla sola condotta appropriativa, espungendo, quindi, dall’area del penalmente rilevante, la condotta del pubblico ufficiale che non si sia appropriato a titolo personale di un bene della P.A. bensì, semplicemente, abbia preso quel bene e l’abbia destinato al soddisfacimento di altre finalità pubblicistiche. L’intento perseguito dal legislatore è stato quello di garantire il rispetto del principio costituzionale di proporzionalità: un trattamento sanzionatorio così severo risultava, quindi, adeguato solo laddove si fosse ricorso alla modalità realizzativa caratterizzata da un maggiore disvalore sociale, ovvero quella espropriativa.
Dal punto di vista soggettivo non si pongono peculiari problemi, la fattispecie del primo comma è punita a titolo di dolo generico, data l’assenza di elementi normativi che connotino l’ipotesi in termini soggettivi specifici.
In realtà la riforma del 1990 ha operato un ulteriore modifica, aggiungendo un secondo comma all’art. 314 c.p. che recita: “Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. Tale fattispecie viene definita come peculato d’uso e si caratterizza per il mero sfruttamento temporaneo della cosa. Rispetto a questa si richiede, al contrario del primo comma, un dolo specifico consistente nella finalità di utilizzare temporaneamente la cosa sottratta. Dal punto di vista oggettivo, invece, non è necessaria, quindi, la fuoriuscita del bene dalla sfera del proprietario, bensì che l’agente si comporti nei confronti della cosa in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio uti dominus, perseguendo utilità economico patrimoniali proprie dello stesso soggetto agente e restituendo successivamente il bene utilizzato.
Un caso specifico che ha destato il sorgere di un dibattito in dottrina e giurisprudenza, è quello dell’utilizzo del telefono d’ufficio per uso privato. Diversi gli orientamenti che si sono delineati in merito: in alcune sentenze si riconduce l’uso illegittimo del telefono all’ipotesi del peculato d’uso ex art. 314 secondo comma c.p., dato l’utilizzo deviato dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità dell’agente e l’esercizio del possesso a fini propri per un periodo di breve durata. Secondo un altro orientamento la condotta rientra, invece, nel peculato comune, dato l’utilizzo non del telefono in quanto tale bensì dell’utenza telefonica, dotata di valore economico e quindi equiparata alla cosa mobile ex art. 314 primo comma c.p.
La questione è stata risolta dalle Sezioni Unite nel 2013 che hanno qualificato l’ipotesi in esame come peculato d’uso. La Corte inizia il suo iter motivazionale smontando tesi prospettata: dunque le energie non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, infatti non preesistono all’uso dell’apparecchio ma sono prodotte dalla sua stessa attivazione. Inoltre tali energie sono caratterizzate dalla propagazione, per cui non è possibile procedere ad un loro concreto immagazzinamento.
Le Sezioni Unite ricorrono, così, ad una nozione di appropriazione ampia, comprensiva anche dell’uso indebito della cosa, connotato dall’eccedenza dei limiti del titolo in virtù del quale l’agente lo detiene. In questo caso, infatti, la condotta non si traduce nella stabile inversione del dominio ma integra solo la violazione del titolo del possesso. L’agente distrae il bene dalla sua destinazione pubblicistica utilizzandolo a fini personali per un periodo di breve durata, restituendo in un secondo momento il telefono e riconducendolo alla sua stessa destinazione normale. Dal punto di vista della offensività la condotta dovrà, pertanto, superare la soglia del penalmente rilevante e realizzare una effettiva lesione al bene tutelato in termini di apprezzabile danno al patrimonio della P.A. o di terzi e di lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio.
La questione si è posta in termini analoghi in merito all’utilizzo della connessione Internet tramite computer per finalità private. Nel 2013 la Cassazione riprende la tesi delle Sezioni Unite configurando la responsabilità dell’imputato per peculato d’uso e prevedendo la “restituzione” dell’apparecchio alla destinazione propria nel momento in cui ne cessa l’uso. Tuttavia, nel caso in cui sia stipulato un contratto forfettario o una tariffa “tutto compreso”, secondo un indirizzo interpretativo, mancherebbe l’offensività della condotta ed il pregiudizio per la P.A. trattandosi di abbonamenti che non prevedono alcuna maggiorazione di costi in base al numero di files o di immagini scaricate.
Infine si pone la problematica dell’uso delle auto pubbliche. Secondo la Cassazione qualora l’imputato proceda ad un uso occasionale, di brevissima durata, giustificato da ragioni di urgenza quali ad esempio delle gravi esigenze familiari, senza che vi sia un apprezzabile pregiudizio per la P.A. non è ravvisabile l’integrazione del reato di peculato d’uso. Diverso sarà il caso, invece, della condotta di un appartenente alle forze di polizia che utilizza l’auto di servizio destinata al pattugliamento del territorio per consumare in essa una prestazione sessuale con una prostituta: sarà integrato in tal caso il delitto di peculato d’uso.